Un caro amico, che sa qual è il mio lavoro, mi ha suggerito di vedere il documentario "The Social Dilemma" su Netflix.
L'ho visto, e non ci ho trovato nulla che già non sapessi. Anzi, proprio la conoscenza di quegli algoritmi incriminati di cui si parla nel documentario è alla base di gran parte del mio successo professionale.
Però la visione del film, che consiglio a tutti, ha prodotto in me un altro tipo di "dilemma".
Usare una tecnologia sbagliata, avendo il controllo del fine ultimo, è giusto? Oppure, proprio perché si riconosce che il mezzo è intrinsecamente sbagliato, bisogna rinunciarvi?
SEGUIRE O NON SEGUIRE?
Follow e Unfollow sono termini che ormai attribuiamo non a dinamiche sociali, ma ad azioni progettate per i Social Network. Eppure, è tutto lì il perimetro della scelta dell'individuo: schierarsi.
Io ho creduto, per anni, di essermi sufficientemente "schierato".
Nel lontano 2011 teorizzavo l'influenza dei progressi del Web sulla società civile:
"Cos'è il Web 3.0"
Nel 2012 scrivevo che la perdita dell'oggettività nei risultati di ricerca era un problema:
"Confessioni di un SEO Specialist pentito"
Nel 2013 scrivevo che il monopolista delle ricerche sul Web era poco trasparente e perseguiva, con le proprie politiche aziendali, meramente il profitto:
"Google, don't be evil... togli il Not Provided e ridacci la Long Tail"
Nel 2014 scrivevo che non si possono lasciare scelte di carattere globale ai tecnocrati, ma ci vogliono umanisti e filosofi per indirizzare il progresso tecnologico:
"I nuovi domini, la vecchia SEO... e perché ci vorrebbero dei filosofi che si occupassero di standard ed Information Technology"
Non mi sono limitato a scrivere su questo blog. In un tavolo di lavoro alla Leopolda 5, proposi all'allora Sottosegretario di Stato del Ministero dello Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni nel governo Renzi, Antonello Giacomelli, di fare un intervento legislativo per le scuole dell'obbligo sulla "formazione all'uso del Web e dei Social Media". L'obiettivo era formare le giovani generazioni sui funzionamenti degli algoritmi dei colossi dell'economia digitale, spiegare che non restituiscono una verità oggettiva, ma solo quello che è funzionale ai loro obiettivi di business.
Un tempo ci insegnavano a sfogliare l'enciclopedia, ora nessuno spiega ai giovani che fare una ricerca sul Web o sui Social Media segue logiche completamente diverse dalla restituzione di risultati che hanno a che fare con "la verità".
E, anche se ho sollevato tali problemi etici con molti anni di anticipo rispetto alla "sensibilità pubblica", non mi sento esente da colpe: li ho denunciati, ma ho continuato ad usare la loro tecnologia, tecnologia che ha prodotto "mostri", come Trump e i terrapiattisti.
Certo, con fini opposti, spesso nobili, o comunque eticamente affini al mio sentire. Ma siamo ancora una volta di fronte al dilemma: la mia etica può decidere cosa è giusto o sbagliato per altri individui, per altre sensibilità? Oppure la conoscenza di certi strumenti tecnologici mi consente di manipolarli?
Il problema è, oggi più che mai, che il mezzo che veicola la comunicazione non è neutro.
La mia più grande frustrazione è che non mi basta più dire "io l'avevo detto".
Vorrei aver saputo scegliere una terza via.