Il silenzio della cattedrale, questo il titolo del romanzo, mi è apparso, fin dalle prime pagine, un libro unico, speciale, che non sono riuscito nemmeno a inquadrare in un particolare genere.
Non è un thriller in senso stretto, poiché non c’è qualcuno che indaga, un colpevole o un misfatto in particolare. Ci sono semmai più colpevoli, più misfatti e più personaggi chiamati a domandarsi il senso di quello che vivono.
Non è nemmeno un romanzo storico nell'accezione che daremmo ai romanzi di Eco, perché, pur nella rigorosa ambientazione storica (nel periodo a cavallo tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400), non si legge per la curiosità di conoscere “il dietro le quinte” dei fatti storici narrati. Il Medioevo che finisce e il Rinascimento che sta per iniziare sono semmai lo scenario di sfondo di un palcoscenico sul quale si dispiegano le storie individuali di una pluralità di personaggi, uniti, più che da una trama, da uno scopo comune.
Lo scopo, la “visione ultima”, infatti, è il cuore del romanzo e ciò che muove il lettore nella lettura delle oltre 700 pagine: vedere finalmente costruita la meravigliosa cattedrale in stile francigeno sull'Appennino tosco-emiliano. La cattedrale è il centro attorno al quale i personaggi ruotano, ognuno con il proprio carico di vizi e virtù, ognuno alla ricerca del proprio scopo individuale, del senso della sua esistenza, che non riesce ad afferrare, se non sognando di contribuire in qualche modo ad una “Mission”, diremmo in termini aziendali, collettiva, nobile e importante; la costruzione della cattedrale, appunto.
Si patisce con loro perché, in qualche modo, li capiamo e li amiamo tutti. Sono uno spaccato di umanità che riconosciamo come vero, autentico, e del quale, alla fin fine, riconosciamo di fare parte. Baldazzi ha avuto l'abilità di scrivere un romanzo in cui il dolore, anche nelle sue forme più estreme (povertà, fame, amore negato, ingiustizia, corpi violati, morte), diventa un corollario naturale dell'esistenza umana e, in quanto tale, è “la livella” sulla quale si appiattiscono tutte le diversità e si sospende ogni forma di giudizio verso l’altro.
La fine del romanzo può lasciare interdetti, e senz'altro rimane l’amaro in bocca, perché non si vede compiuta l’Opera. Ma è proprio in questa incompiutezza che riscopriamo il senso profondo della vita dei personaggi e, di riflesso, siamo portati a riflettere sulla nostra stessa vita. Riprendendo ancora una volta il gergo aziendale, la Mission è un cammino verso la Vision, che, in quanto “alta” e ambiziosa, non è detto che venga raggiunta, ma serve a darci il senso del nostro camminare, del nostro agire.
Il borgo, chiamato Fabrica, che nasce sulla montagna attorno all'Opera della Cattedrale, fatto di case e famiglie, di uomini e donne, di feste e lutti, è forse l’immagine più bella di tutto il libro; è ciò che dà un senso alla sforzo compiuto sia dall'impavido architetto, direttore dei lavori, che dall'ambizioso abate benedettino di San Giorgio al Monte, principale sponsor dell’impresa.
Il primo, Jacopo da Volterra, di ciò sarà consapevole, l’altro, Padre Ernesto Patrizio, no. Ed in fondo è in questa differenza che sta la lezione di vita che ci dona Gianfranco Baldazzi: la vita è adesso, è nella pietra che metto oggi per costruire la cattedrale, non fra trent'anni, quando molteplici pietre svetteranno verso il cielo e l’Opera sarà compiuta.
Anche perché, fra trent'anni o più, non è detto che lo sia.