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31 gennaio 2016

Io consumo, tu consumi, egli consuma... Voce del verbo Essere.

Qualche settimana fa un amico mi ha coinvolto, insieme ad altri amici e conoscenti su Facebook, nel fare un piccolo esercizio collettivo: ci ha invitato a fare una riflessione sugli aspetti che hanno caratterizzato i consumi del decennio 2000-2010 e su quelli che li caratterizzano oggigiorno.
L'idea partiva da una matrice che aveva compilato "nel millennio scorso", durante un corso di Marketing, che provava a sintetizzare logiche, tempi di consumo e caratteristiche principali dei prodotti consumati:

EPOCALOGICA DI CONSUMOTEMPI DI CONSUMOTIPI DI PRODOTTO
anni '60Funzionale-AcquisitivaObbligatiIntegrativi
anni '70Critico-TrasgressivaAlternatiTrasgressivi
anni '80Teatrale-OstentativaAccelerati/ImpulsiviPer apparire
anni '90Affettivo-identificativaRiflessivi/ConsapevoliMaieutici

La domanda era quindi: cosa diremmo, oggi, dei comportamenti degli ultimi due decenni?

Inizialmente ero dubbioso che fosse possibile fare una tale sintesi. Troppo difficile, soprattutto perché lo schema proposto parlava di un mondo "occidentale", che però negli anni è diventato sempre più globale (tanto per fare un esempio, nel 2000 la Cina viveva le caratteristiche di consumo proprie dei nostri anni '80).
Comunque ho deciso di provarci, focalizzandomi solo sul contesto europeo, per ovvi motivi di conoscenza e reale opportunità di sintesi.
Il risultato della mia riflessione è rappresentato in questa tabella:

EPOCALOGICA DI CONSUMOTEMPI DI CONSUMOTIPI DI PRODOTTO
anni 2000EsplorativaProcrastinatiPotenzianti
anni 2010CompensativaPervasiviEsperienziali

La riflessione che mi ha portato a dare queste risposte è la seguente.
Dal 2000 al 2007-2008, l'accelerazione tecnologica, unità al potere informativo del Web (e al miglioramento dei motori di ricerca), ha creato una pluralità di opportunità di acquisto utili/inutili che hanno indotto i consumatori in una trance-esplorativa che non si è del tutto esaurita. Bisognava provare qualsiasi novità, in qualsiasi settore. Gli e-commerce ci hanno consentito di esplorare qualsiasi categoria merceologica e la caratteristica principale dei prodotti era la promessa che "questi ci avrebbero potenziato". Abbiamo imparato ad aspettare la consegna di un prodotto, pur di essere "potenziati", abbiamo imparato a fare ricerche su ricerche (online e offline, cross-device e cross-media) per trovare la novità al miglior prezzo. Potevi fare di più col tuo smartphone, avere più tempo se il robot spazzava al tuo posto, potevi affrontare una tormenta di neve col cappotto giusto, potevi sapere tutto su tutti con l'App giusta.
Poi credo che la crisi economica abbia indotto il Marketing a rifocalizzare le sua promessa dominante, facendo emergere innanzitutto il potere culturale-esperienziale dei prodotti. Si compra per "esperimentare nuove cose-situazioni-emozioni", perché non siamo più in grado di costruirci da soli le nostre esperienze (o anche perché la fase esplorativa degli anni precedenti ci ha insegnato che la UX è più importante della funzione d'uso).
Oggigiorno vedo comportamenti d'acquisto per lo più "compensativi", che cercano di colmare lacune relazionali, e questa caratteristica impatta anche sui tempi di consumo, che sono a dir poco schizofrenici. Ovviamente i dispositivi mobili hanno un certo peso in questi tempi pervasivi di acquisto e consumo (che ora si vogliono il più ravvicinati possibili, forse anche grazie all'innovazione sui tempi di consegna, introdotta da colossi come Amazon).

Questa, lo ripeto, è una "percezione soggettiva" e "geo-localizzata". Mi sono basato, infatti, sull'Italia e l'Europa per riuscire a trovare dei tratti emergenti (perché la globalizzazione dei consumi non vuol dire la globalizzazione delle motivazioni al consumo!).

Ma ero curioso di vedere se fossero emerse, dalla riflessione collettiva, altre caratteristiche comuni tra le idee raccolte in "crowdsourcing". Di fatto, lo ritenevo un esercizio di "percezione" e arrivare a fare una tabella "oggettiva" mi appariva molto difficile.
Non si tratta, infatti, di storia economica o del marketing, né di statistica sui consumi. Quello che possiamo scrivere sulle logiche di consumo, sui tempi e sui prodotti, ha a che vedere, a mio avviso, quasi esclusivamente con la percezione: come ognuno percepiva e percepisce il proprio lavoro (per i markettari come me e gli amici coinvolti nell'esercizio) o i propri comportamenti d'acquisto (come consumatore). Ed in questo esercizio di auto-analisi ci sono inevitabili approssimazioni, riconducibili ad almeno tre fattori: memoria (prospettiva storica diversa fra i due decenni), contesto (città, amici, clienti, ecc.), punto di vista (dove lavoravo, come mi sentivo in quegli anni, come vedevo/studiavo il mondo, ecc.).

In effetti la matrice finale è risultata molto varia, pur con qualche tratto simile (in grassetto):
[Grazie a Paolo Pascolo di Imille per l'interessante esercizio e la condivisione dei risultati]


Ma la vera riflessione che questo esercizio mi ha indotto a fare riguarda un perché più profondo che sottostà alle logiche di consumo.
È evidente, infatti, che nell'ultimo mezzo secolo si sia affermato un trend verso consumi slegati da ogni bisogno primario (prima colonna della tabella). C'è, in questo, una "normale" scalata della Piramide di Maslow (ne ho scritto al Capitolo 4, della serie di post "End Of The World Economy"). Ma c'è anche di più.
Abbiamo definitivamente deciso di affidare ai consumi l'espressione del nostro Essere. E ci stiamo dimenticando via via di "essere". Non ne conosciamo più il senso.

Nel libro "Consumo, dunque sono" il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman tende a leggere i comportamenti dell'individuo occidentale come conseguenza del passaggio dalla "Società dei Produttori" alla "Società dei Consumatori". Ma, a mio avviso, c'è anche una scelta, più o meno consapevole, dietro la trasformazione.
In "Avere o Essere?" Erich Fromm riteneva le modalità dell'Essere e dell'Avere alternative e contrapposte: qualsiasi comportamento poteva sostanziarsi in una delle due forme (che non necessariamente avevano a che vedere con i consumi, ma potevano essere modalità applicate a qualsiasi comportamento). Io credo che l'applicazione della "modalità dell'Avere" nella Società dei Consumatori sia stata una scelta di massa, che ha generato una dimenticanza diffusa e sistemica della "modalità dell'Essere". Una scelta di comodo, certo, perché, se mi basta esprimere chi sono e cosa voglio dire/fare tramite il possesso o il consumo di un bene/servizio, allora posso dimenticarmi dello "sforzo produttivo" (inteso anche come sforzo espressivo del mio vero Essere).

C'è una colpa del Marketing in questa scelta dei consumatori? Forse sì, ma solo in parte. Quello che ha davvero generato il cambiamento è stato il proliferare dei beni di consumo (come quantità, qualità e gamma), che ha consentito sfumature di espressione altrimenti impossibili. Quindi non c'è, io credo, una vera e propria "colpa" degli operatori della Comunicazione, si tratta piuttosto di una conseguenza delle logiche produttive capitaliste (l'abbondanza di beni e servizi ha generato la possibilità di affidarsi ad essi per scopi che trascendevano il consumo).


Con il moltiplicarsi di brand e messaggi di comunicazione raffinati, il consumatore si è trovato davanti una paletta di colori davvero molto vasta. Nell'ultimo mezzo secolo sono esplose le possibilità di "dipingere" la propria esistenza con i colori più vari, comunicando agli altri ben più del proprio status: con i consumi riusciamo ad esprimere passioni, valori, ideali, cultura, desideri, stili di vita, convinzioni politiche e perfino religiose. Anche comprare Bio, Equo e Solidale oppure KM 0 è solo un'altra forma di delegare ai consumi la capacità di espressione del nostro Essere.
Consumiamo per essere e per dire chi siamo.

Cosa c'è di male in questa logica di consumo? Io credo una sola cosa: dobbiamo riappropriarci dello sforzo produttivo. Dobbiamo riappropriarci delle capacità di espressione attraverso l'atto creativo, attraverso la produzione/trasformazione di beni, materiali o immateriali.

E ovvio che non abbiamo i tempi, né le capacità, oramai, di creare autonomamente nemmeno un un millesimo di quanto consumiamo. Ma possiamo evolvere nello sforzo produttivo che affrontiamo nel quotidiano. Possiamo scrivere post per dire la nostra opinione, comporre musica per regalare un'emozione, o anche solo fare una playlist da condividere. Possiamo fare decine di scatti con il nostro smartphone e condividere solo quello realmente ben riuscito, perché ad esso affidiamo l'amore che abbiamo per gli altri (non quello che abbiamo per noi stessi - di cui spesso i selfie sono un perfetto esempio). Al lavoro possiamo "produrre" documenti di qualità, idee creative, siti web attenti alla User Experience. Possiamo cucinare per i nostri figli cose nuove e buone, invece di portarli a cena fuori (parentesi di autocritica). O meglio, possiamo anche scegliere di portarli a cena fuori per comunicare il nostro amore e la nostra voglia di fare festa, ma non possiamo delegare al solo atto di consumo l'espressione di gioia che vogliamo condividere. Dobbiamo metterci nella "modalità dell'Essere", per dirla con Fromm, anche nel consumo.

Si tratta, in ultima analisi, di essere più consapevoli di cosa ci spinge a consumare e, in questa nuova luce, recuperare capacità di relazione ed espressione del nostro Essere.

15 gennaio 2016

Una storiella di genere... sui generis

In una delle mie tante esperienze di studente ribelle e sinistrorso, mi trovai ad occupare la facoltà di Sociologia a Trento, la cui popolazione era a stragrande maggioranza femminile.
Il primo giorno fui cooptato nel gruppo che doveva scrivere il comunicato stampa per i giornali. 5 donne ed io. Era un cosa che avrebbe richiesto massimo 30 minuti, ma durò diverse ore, perché, ahimè, i collettivi non votano, decidono all'unanimità. E per raggiungere l'unanimità ci volevano innumerevoli discussioni.

L'oggetto del contendere era l'uso del femminile e maschile nel comunicato. Ero finito in un gruppo di femministe sfegatate. Se ad esempio proponevo "Noi studenti, stanchi dei tagli del Governo, rivendichiamo il diritto...", mi facevano una predica sull'uso improprio del genere. Se proponevo "Noi studenti e studentesse, stanchi dei tagli del Governo, rivendichiamo...", criticavano l'ordine di presentazione e la declinazione al maschile dell'aggettivo (che, tra parentesi, è una regola grammaticale).

Insomma, non se ne usciva. In tarda serata, una delle 5, orgogliosamente lesbica, mise in discussione anche il femminile, e propose una soluzione rispettosa di tutti i generi: l'asterisco. Alle undici di sera ero pronto a cedere su tutto, ma non sulla distruzione di un copywriting che fosse un minimo leggibile. Mi alzai sconfitto e me ne andai a dormire nel sacco a pelo.
Il giorno dopo lessi sul quotidiano locale "Noi student*, stanch* dei tagli del Governo, rivendichiamo..." e così via per 1000-1500 battute.
Era il comunicato meno chiaro che avessi mai letto, ma sorrisi tra me e me: almeno l'avevano consegnato in tempo.

La storiella non ha una morale, non è una presa di posizione sulla questione di genere, non significa che io preferisca evitare gli asterischi.
È solo un modo di condividere un pensiero che, oggi come allora, mi torna in mente quando si parla "sui generis": non abbiamo gli strumenti gnoseologici, culturali e perfino linguistici per confrontarci con le sfide che ci pone "la relazione".
Quando, nella storia dell'umanità, non ci si curava di questo aspetto e le forme della relazione tra individui erano dettate dal potere dominante, il problema non si poneva (vedi la regola grammaticale di cui sopra, dove il maschile prevale sul femminile).
Ma oggi è diverso. E dobbiamo avere la capacità di mettere "la difesa della relazione" prima della difesa della nostra opinione.