Ci sono poesie che senza titolo sarebbero monche, quadri che senza il nome giusto comunicherebbero molto meno, ci sono titoli più belli dei film stessi e libri che più che leggere, val la pena "immaginarseli", lasciandosi suggestionare dal mero titolo.
È questo il caso, per me, de "L'amore ai tempi del colera" di Gabriel García Márquez. Non che l'autore non mi piaccia, anzi, lo trovo struggente e avvincente al tempo stesso, amaro e immaginifico, "reale" e "magico", se vogliamo inquadrarlo letterariamente.
Però questo suo libro ho deciso di non leggerlo; per il gusto di immaginarmelo.
Mi immagino la forza dell'amore, che resiste al tempo e alle distanze. Mi immagino paesi prostrati da calamità naturali e malattie, scenari di dolore nei quali due giovani si cercano, si trovano, sia amano. Immagino la forza del sentimento, che anche nelle situazioni più difficili, come una pestilenza o una crisi sociale, trova in sé le motivazioni per andare avanti, per andare oltre.
Ecco, qualcosa di simile pensavo quando meditavo di scrivere il post in cui avrei comunicato la mia scelta di lasciare il lavoro in Archimede. Pensavo ad un titolo che sintetizzasse da una parte la difficoltà di una scelta, dall'altra l'ineluttabilità di quella scelta stessa. Un titolo che evidenziasse la difficoltà del contesto, ma che non fosse pessimista. Un titolo a suo modo poetico, ma anche crudo e realista.
Ricordando quindi il libro mai letto di Márquez, ne è uscita una riscrittura in chiave moderna: Il Lavoro al tempo della crisi.
Da una parte il Lavoro, forza motrice e vitale quanto l'Amore. Dall'altra la crisi, contesto avverso e insidioso quanto il colera. E poi "al tempo" più che "ai tempi" poiché, ahimè, non posso permettermi di evocare una prospettiva storica.
Pensavo poi allo svolgimento del post, a come avrei potuto spiegare una scelta che di razionale ha apparentemente ben poco; come giustificare la rinuncia ad un posto fisso, ad un buono stipendio e a un ruolo di responsabilità, senza nemmeno aver cercato prima un'alternativa. Una scelta, poi, che ha del folle se si pensa che siamo nel pieno di una crisi economica, nel bel mezzo di una situazione catastrofica sul piano dell'occupazione nel nostro Paese.
E più ci pensavo, più pensavo al titolo scelto, più si faceva chiara in me la risposta....
Ebbene la spiegazione è nel termine "Lavoro", o per lo meno nei significati che io attribuisco a questa parola.
Forse a causa degli studi giovanili sul pensiero di Marx, o per gli insegnamenti di mio padre (che ho già avuto modo di ricordare), ho sempre ritenuto il Lavoro come qualcosa di "sacro" (non a caso con la L maiuscola).
La sua importanza e centralità nella Costituzione mi rendeva orgoglioso di essere italiano (molti, ma molti anni fa).
In breve, ho sempre ritenuto il Lavoro un'attività talmente importante nella vita di una persona, da credere che dovesse essere qualcosa di più che un mezzo per garantire il sostentamento a sé e alla propria famiglia. Doveva per forza di cose essere anche un fattore di crescita personale, un modo per fare qualcosa per la società, per il bene comune.
Queste che erano considerazioni "ideologiche" di gioventù, col tempo, arrivando a lavorare anche 16 ore al giorno, sono diventate un'esigenza palese, poiché di tempo per fare altro non è che ne resti molto.
Ma per fare bene il proprio lavoro servono una miriade di "condizioni al contorno" spesso non dipendenti da se stessi (e nonostante l'impegno, la passione e i sacrifici, spesso nemmeno modificabili).
Che fare quindi quando il tuo modo di lavorare, in termini di professionalità, qualità e obiettivi di crescita personale non è perseguibile?
Diciamo che in una società "normale" la risposta sarebbe scontata: cambiare lavoro (tipo o luogo, non importa, ma comunque cambiare).
E qui veniamo al colera. O meglio, alla crisi.
In tempo di crisi, anche se solo economica, tutto cambia. La nostra percezione del lavoro cambia. I telegiornali ci ricordano continuamente l'aumento del tasso di disoccupazione, i giornali pubblicano statistiche sul dissesto finanziario del Paese, ed i lavoratori da insoddisfatti pronti al cambiamento diventano insoddisfatti frustrati. Il sistema da dinamico diventa statico, fino poi a implodere su se stesso.
La società ci induce in uno stato di paura. Perfino gli scopi della vita, insieme a quelli professionali, vengono ridimensionati; e ci si accontenta di passare da una modalità "voglio realizzarmi come persona e come professionista" a "voglio mantenere il lavoro".
Ma la condizione in cui non si è liberi di autodeterminarsi è uno status che le società moderne dovrebbero definitivamente superare. E se le "condizioni al contorno" non lo permettono, allora la forza bisogna trovarla dentro di sé, nelle ragioni profonde del desiderio di cambiamento.
Nel mio caso, quindi, è proprio l'alta concezione che ho per il Lavoro che mi ha portato a rinunciare a quello che avevo.
Non si può scendere a compromessi su una cosa così importante. Anche, e forse soprattutto, in tempo di crisi. Perché la crisi ha le sue radici più profonde proprio nel disprezzo del Lavoro reale e nell'abbrutimento delle condizioni imposte alle parti più deboli.
Riscoprendo la centralità del Lavoro nella vita di ogni individuo, i governi e le aziende non possono che indirizzare tutti i loro sforzi per permettere la piena realizzazione dei cittadini anche attraverso il Lavoro. In questo "rispetto" di una società per il Lavoro, si nasconde il seme della ricchezza e dell'equità distributiva.
Avendo sempre presenti queste considerazioni, non è stato poi così difficile addivenire ad una scelta (comunicata a luglio, ma effettiva dal 29 settembre 2012).
Oggi, quindi, è il mio ultimo giorno di lavoro in Archimede.
Lascio con vero rammarico tutti i colleghi, tanti progetti, alcuni clienti (e non è un anticlimax). Ma tutto sommato sono sereno perché, come ho scritto ad un cliente ed amico comunicandogli le mie dimissioni tempo fa, "la crescita, che sia personale o professionale, non è mai un processo lineare: a volte richiede degli strappi."
Però questo suo libro ho deciso di non leggerlo; per il gusto di immaginarmelo.
Mi immagino la forza dell'amore, che resiste al tempo e alle distanze. Mi immagino paesi prostrati da calamità naturali e malattie, scenari di dolore nei quali due giovani si cercano, si trovano, sia amano. Immagino la forza del sentimento, che anche nelle situazioni più difficili, come una pestilenza o una crisi sociale, trova in sé le motivazioni per andare avanti, per andare oltre.
Ecco, qualcosa di simile pensavo quando meditavo di scrivere il post in cui avrei comunicato la mia scelta di lasciare il lavoro in Archimede. Pensavo ad un titolo che sintetizzasse da una parte la difficoltà di una scelta, dall'altra l'ineluttabilità di quella scelta stessa. Un titolo che evidenziasse la difficoltà del contesto, ma che non fosse pessimista. Un titolo a suo modo poetico, ma anche crudo e realista.
Ricordando quindi il libro mai letto di Márquez, ne è uscita una riscrittura in chiave moderna: Il Lavoro al tempo della crisi.
Da una parte il Lavoro, forza motrice e vitale quanto l'Amore. Dall'altra la crisi, contesto avverso e insidioso quanto il colera. E poi "al tempo" più che "ai tempi" poiché, ahimè, non posso permettermi di evocare una prospettiva storica.
Pensavo poi allo svolgimento del post, a come avrei potuto spiegare una scelta che di razionale ha apparentemente ben poco; come giustificare la rinuncia ad un posto fisso, ad un buono stipendio e a un ruolo di responsabilità, senza nemmeno aver cercato prima un'alternativa. Una scelta, poi, che ha del folle se si pensa che siamo nel pieno di una crisi economica, nel bel mezzo di una situazione catastrofica sul piano dell'occupazione nel nostro Paese.
E più ci pensavo, più pensavo al titolo scelto, più si faceva chiara in me la risposta....
Ebbene la spiegazione è nel termine "Lavoro", o per lo meno nei significati che io attribuisco a questa parola.
Forse a causa degli studi giovanili sul pensiero di Marx, o per gli insegnamenti di mio padre (che ho già avuto modo di ricordare), ho sempre ritenuto il Lavoro come qualcosa di "sacro" (non a caso con la L maiuscola).
La sua importanza e centralità nella Costituzione mi rendeva orgoglioso di essere italiano (molti, ma molti anni fa).
In breve, ho sempre ritenuto il Lavoro un'attività talmente importante nella vita di una persona, da credere che dovesse essere qualcosa di più che un mezzo per garantire il sostentamento a sé e alla propria famiglia. Doveva per forza di cose essere anche un fattore di crescita personale, un modo per fare qualcosa per la società, per il bene comune.
Queste che erano considerazioni "ideologiche" di gioventù, col tempo, arrivando a lavorare anche 16 ore al giorno, sono diventate un'esigenza palese, poiché di tempo per fare altro non è che ne resti molto.
Ma per fare bene il proprio lavoro servono una miriade di "condizioni al contorno" spesso non dipendenti da se stessi (e nonostante l'impegno, la passione e i sacrifici, spesso nemmeno modificabili).
Che fare quindi quando il tuo modo di lavorare, in termini di professionalità, qualità e obiettivi di crescita personale non è perseguibile?
Diciamo che in una società "normale" la risposta sarebbe scontata: cambiare lavoro (tipo o luogo, non importa, ma comunque cambiare).
E qui veniamo al colera. O meglio, alla crisi.
In tempo di crisi, anche se solo economica, tutto cambia. La nostra percezione del lavoro cambia. I telegiornali ci ricordano continuamente l'aumento del tasso di disoccupazione, i giornali pubblicano statistiche sul dissesto finanziario del Paese, ed i lavoratori da insoddisfatti pronti al cambiamento diventano insoddisfatti frustrati. Il sistema da dinamico diventa statico, fino poi a implodere su se stesso.
La società ci induce in uno stato di paura. Perfino gli scopi della vita, insieme a quelli professionali, vengono ridimensionati; e ci si accontenta di passare da una modalità "voglio realizzarmi come persona e come professionista" a "voglio mantenere il lavoro".
Ma la condizione in cui non si è liberi di autodeterminarsi è uno status che le società moderne dovrebbero definitivamente superare. E se le "condizioni al contorno" non lo permettono, allora la forza bisogna trovarla dentro di sé, nelle ragioni profonde del desiderio di cambiamento.
Nel mio caso, quindi, è proprio l'alta concezione che ho per il Lavoro che mi ha portato a rinunciare a quello che avevo.
Non si può scendere a compromessi su una cosa così importante. Anche, e forse soprattutto, in tempo di crisi. Perché la crisi ha le sue radici più profonde proprio nel disprezzo del Lavoro reale e nell'abbrutimento delle condizioni imposte alle parti più deboli.
Riscoprendo la centralità del Lavoro nella vita di ogni individuo, i governi e le aziende non possono che indirizzare tutti i loro sforzi per permettere la piena realizzazione dei cittadini anche attraverso il Lavoro. In questo "rispetto" di una società per il Lavoro, si nasconde il seme della ricchezza e dell'equità distributiva.
Avendo sempre presenti queste considerazioni, non è stato poi così difficile addivenire ad una scelta (comunicata a luglio, ma effettiva dal 29 settembre 2012).
Oggi, quindi, è il mio ultimo giorno di lavoro in Archimede.
Lascio con vero rammarico tutti i colleghi, tanti progetti, alcuni clienti (e non è un anticlimax). Ma tutto sommato sono sereno perché, come ho scritto ad un cliente ed amico comunicandogli le mie dimissioni tempo fa, "la crescita, che sia personale o professionale, non è mai un processo lineare: a volte richiede degli strappi."