Recentemente un documentario sul ruolo delle donne nella televisione italiana (dal titolo "Il corpo delle donne"), ha aperto un dibattito molto acceso sul degrado etico di questo media; sul banco degli imputati, inevitabilmente, è finita soprattutto la pubblicità.
Occupandomi di advertising per lavoro, mi sono sempre chiesto se fosse inevitabile l'uso degli istinti primari di base (fra i quali il sesso), per ottenere una comunicazione promozionale di successo. In fondo la fame, la rabbia, la paura, il desiderio sessuale, o il voyeurismo, sono leve forti e di comprovata efficacia. Non è un caso se molte delle adv che vediamo su stampa e TV sono incentrate su questi bisogni primari.
Ma mi sono convinto che questa pratica non è necessaria e, soprattutto, è solo una scorciatoia per pubblicitari poco creativi e per brand poco illuminati.
Le migliori agenzie di comunicazione, infatti, si sforzano di sviluppare pubblicità che coinvolgano e convincano per il loro contenuto creativo. È forse più difficile, ma è la strada giusta.
E lo dico non per buonismo, o per un senso etico fine a se stesso, ma perché credo sia necessario pensare alla pubblicità come il processo finale di un percorso che parte dal consumatore. In questa ottica "conviene" alle aziende avere una pubblicità che non sia degradante o offensiva, perché, prima di ogni obiettivo di memorabilità delle campagne di advertising, bisogna avere una brand image pulita, solida, eticamente corretta, presso un pubblico che sia il più ampio possibile (non solo il proprio target).
L'advertising, quindi, può e deve essere espressione di strategie di marketing lungimiranti ed etiche. Se al centro del processo di marketing c'è il cliente (come scrivevo tempo fa in Marketing & Etica), la soddisfazione dello stesso, prima ancora che dal prodotto, parte dal modo di coinvolgerlo nella scelta stessa del prodotto. Il ruolo della donna nell'advertising dovrebbe essere quindi ripensato anche perché degradante per le strategie di "catching" dei brand.
Non c'è Codice di Autodisciplina che tenga di fronte agli obiettivi commerciali di un'azienda. Ma i pubblicitari devono far capire ai propri clienti (e in certi casi convincersi essi stessi) che è "ontologicamente sbagliato" avere atteggiamenti opportunisti e poco etici nelle loro campagne pubblicitarie.