Dall’ultimo post è rimasta aperta una domanda:
è etico fare marketing?
Indipendentemente dal rispetto di un codice deontologico (tra l’altro ancora poco chiaro in Italia, poiché ogni scelta deontologica è demandata all’autoregolamentazione interna delle diverse associazioni di categoria), resta l’incognita del valore intrinseco della promozione al consumo.
È pur vero che si può fare marketing per Associazioni di Volontariato, ONG e anche Campagne di Utilità Sociale, ma la stragrande maggioranza delle azioni pubblicitarie non sono mirate a raccogliere fondi per questa o quella ONLUS, bensì ad invogliare i consumatori a comprare prodotti o servizi, in quantità sempre maggiori e sempre più frequentemente.
La propensione al consumo è senz’altro un elemento fondamentale per sostenere la crescita economica, ma oggigiorno forse andrebbe ripensata. I ritmi di sviluppo sostenuti a cui abbiamo sottoposto la terra ci hanno portato ad un punto di non ritorno, un orizzonte degli eventi oltrepassato il quale non c'è speranza di salvezza per il nostro pianeta.
La presa di coscienza di tale situazione induce anche i più accaniti sostenitori dell'equazione "crescita economica=maggior benessere" a propendere per una decelerazione dei ritmi di produzione e consumo attuali; si parla già da tempo di puntare sulla decrescita, come ho già scritto su questo sito un anno fa.
Ma al di là del sostenere o meno uno stile di vita consumistico, resta la legittima domanda su se sia etico fare marketing, se cioè sia giusto utilizzare conoscenze economiche, culturali e psicologiche per effettuare una comunicazione grafica, sonora e testuale volta a influenzare le scelte di acquisto del consumatore (nonché ad aumentarne la propensione al consumo).
Mi sono posto questa domanda dal giorno stesso in cui ho iniziato a lavorare in Archimede Creativa.
D'altronde anche quanto studiavo Ingegneria Aerospaziale mi ero scontrato con problemi di compatibilità tra i miei ideali e quelli del mondo lavorativo (ma anche solo universitario), legato all'industria aerospaziale. Ricordo che all'epoca con Ingegneria Senza Frontiere di Pisa e Ingegneria in Movimento - Sinistra Per, organizzammo un dibattito sul tema "Ricerca ed Etica".
Ma interrogarsi circa il ruolo della responsabilità individuale nel fare ricerca è forse più scontato che nel fare pubblicità.
Il famoso dilemma che tanti scienziati nel dopoguerra si posero, ovvero se fosse stato giusto o meno creare la bomba atomica, ha sempre tenuto vivo il dibattito sull'importanza dell'Etica nella Ricerca.
Tuttavia tale dibattito non sembra così vivo nel mondo del Marketing. Anche l'Economia si interroga sulle vie da seguire per raggiungere un'eguaglianza concreta sul piano distributivo, ma nello stesso tempo non si pone problemi sulle dinamiche che muovono il consumo.
Per questa ragione ho a lungo cercato di capire se sul piano ontologico ci fosse una ragione per lavorare in questo settore, o se fosse opportuno impiegare le mie energie in altri ambiti.
Una risposta molto convincente l'ho trovata in un libro (dal titolo Marchi) di Geppi De Liso, direttore creativo dello Studio De Liso di Pubblicità e Comunicazione Visiva (e per anni docente del corso di Laurea in Marketing e Comunicazione d'Azienda dell'Università degli Studi di Bari). Egli prova a fare un'astrazione, e ad immaginare un mondo senza brand né pubblicità.
Riporto di seguito il passaggio del libro che ho trovato illuminante:
"[...]Per spiegare meglio questi concetti sulle capacità di differenziazione dei prodotti effettuate dalla marca ricorro ad una dimostrazione per assurdo: fingiamo che non ci siano marche, che non siano mai nate. Se entrassimo in un supermercato - ammesso che possa esistere così - ci troveremmo di fronte ad una scena di questo tipo: i prodotti sono presentati in confezioni anonime, bianche, riportanti solo il nome del contenuto, neanche il nome del produttore, perché altrimenti sarebbe la marca, nessuna decorazione sulla confezione, o packaging, nulla che differenzi i prodotti, tranne un elemento della comunicazione che non può essere soppresso se il prodotto vien messo in vendita: il prezzo. Certo, perché anche il prezzo è una parte determinante della comunicazione d’impresa, determinato da strategie di marketing oltre che da conti economici.E i prezzi parlano. Un prezzo alto dirà: “Se compri me sai di ottenere un prodotto di qualità superiore”, il luogo comune “più spendi meglio spendi” agisce in suo favore. Un prezzo basso dirà: “Io non ho molte pretese, se non puoi permetterti qualcosa di meglio, accontentati di me”.Un prezzo medio invece dirà: “Io sono a metà strada, non sarò di qualità superiore, ma il prezzo non è eccessivamente alto, puoi accontentarti”.Posti di fronte a questo tipo di mercato come ci comporteremmo?Per esperienza, avendo posto spesso questa domanda in vari corsi, so che stravince il prodotto dal prezzo medio.Bene, che fine farebbero gli altri produttori? O eguagliano il prezzo, e allora non sono più riconoscibili, o escono dal mercato, cioè falliscono.Pensate a cosa sarebbe il mercato gestito in oligopolio, cioè da pochi produttori vincenti, e a quanti lavoratori sarebbero senza lavoro.Ma ecco che le cose stanno diversamente, perché la comunicazione d’impresa - brevemente la pubblicità - diversifica i vari prodotti, riempiendoli di emozioni, dando loro una personalità, che va ad aggiungersi alle loro prestazioni o alla capacità di rispondere ai bisogni, rendendoli, in una certa misura, unici e talvolta mitici."
In pratica la pubblicità è la base del libero mercato. Permette la coesistenza di prodotti e servizi in libera concorrenza fra loro. Oggigiorno, poi, è sempre più orientata verso i gusti propri del pubblico, senza la pretesa (forte invece agli inizi della seconda industrializzazione) di influenzarli. Si è passati, per dirla in gergo tecnico, da una logica push ad una pull.
Un consumatore moderno, quindi, può far pesare ancor di più le sue scelte d'acquisto, ed influenzare la produzione.
Il marketing sarà sempre lì, a garantirgli la possibilità di scegliere.