In questi giorni ci sono a Trento i miei nonni con i miei genitori. Sono venuti a trovarmi loro, visto che ormai manco a Calvi da gennaio. Oggi, "approfittando della prossimità" con Gorizia (per la verità dista più di 340 km), siamo andati a trovare una cugina di mia nonna che vive lì, poiché non si vedevamo da decenni.
Prima di ripartire per Trento, "approfittando della prossimità" (questa sì, reale), abbiamo fatto un salto in Slovenia.
Ed il termine salto non è una metafora, perché ho realmente "saltato il confine" con un solo passo, a Piazza della Transalpina, lì dove sorgeva, un tempo paurosamente non lontano, il Muro di Gorizia, che segnava la frontiera italo-jugoslava.
La domanda non è banale, e presuppone almeno alcune riflessioni di ampio respiro.
L'essere umano fa esperienza diretta dei suoi limiti e del confine, in diversi casi e in diverse modalità. Ne analizzo un paio, perché penso sia possibili ricollegare a questi due macroconcetti la maggior parte delle esperienze, vere o presunte, di "percezione chiara del confine".
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E ricordo le emozioni provate davanti ad una brulla distesa del New Mexico, dove lo sguardo non riusciva a cogliere nient'altro che l'immenso confine tra cielo e terra.
L'essere umano quindi fa esperienza diretta del confine tra se stesso (essere finito) e l'immensità della natura, infinita almeno nel suo potenziale. Tale percezione ci rimanda ad un confine ancora più misterioso, quello tra fisica e metafisica, quello tra il regno materiale e quello (magari solo sperato), del trascendente. Tale frontiera, convenzionalmente chiamata morte, è un confine abbastanza chiaro e dal quale (salvo rari casi) l'uomo cerca di tenersi a debita distanza.
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In passato, per ragioni di sopravvivenza, i nostri più lontani antenati delimitavano il territorio nel quale vivevano, poiché corrispondeva al loro mondo conosciuto. Oltre il fiume, o all'inizio del bosco, iniziava un mondo di cui non sapevano molto, e del quale, perciò, avevano paura. Difendevano poi quel confine e quel loro spazio vitale perché avevano paura di chi proveniva da quella parte di terra sconosciuta. E' un comportamento tra l'altro riscontrabile in tanti animali, che "segnano" il terreno e lo difendono.
Quindi l'uomo percepisce chiaramente il confine tra ciò che conosce e ciò che non conosce. Anzi, dirò di più; associa un sentimento di paura per il non conosciuto, che spiega largamente le frontiere alzate per difendersi da chi o cosa c'è dall'altra parte.
Credo sia riconducibile a questo sentimento di paura l'aver disegnato per secoli confini, poi divenuti, per ragioni economiche, ancora più importanti (in senso strategico) per il benessere dei cittadini di un regno o di uno stato.
E qui torniamo alla domanda iniziale: c'è forse una ragione sostanziale nei confini fra nazioni? C'è nell'uomo il concetto di confine politico, geografico, o culturale??
La risposta è no, non è ontologicamente presente nel suo bagaglio di "leggi di natura", se non nella misura in cui egli ignora chi, come e perché vive dall'altra parte del confine.
L'ignorare la lingua, gli usi e costumi, finanche il non conoscere la morfologia del territorio, è l'unica ragione per cui l'uomo riconosce un confine.
Ma oggi, nella società della conoscenza, oggi che possiamo parlare pressoché con tutti una stessa lingua, oggi che abbiamo i mezzi per conoscere le culture di tutto il mondo, hanno una qualche ragion d'essere i confini?
Forse no. E anche gli economisti dovrebbero farsene una ragione.