Sono nell'aula di informatica di Economia, aspettando che riprenda la lezione.
E pensavo.
Oggi mi è venuto a trovare mio cugino Francesco. E' stato nei giorni scorsi ad un convegno a Milano, ed ha fatto una deviazione qui a Trento; poi venerdì torniamo insieme in quel di Calvi Risorta.
Rivederlo in giacca e cravatta, stile manager in carriera, mi ha fatto un certo effetto. Innanzitutto un gran piacere nel trovarlo brillante come sempre, ma poi c'era qualcos'altro, di non ben definito, qualche emozione latente che non veniva a galla.
Questo pomeriggio, passeggiando per il centro di Trento, Francesco mi ha ridisegnato in chiave sociologica il perché della fine dell'Impero Romano. O sarebbe meglio dire "il perché della
trasformazione", impropriamente chiamata
fine.
E nel chiacchierare piacevolmente a pochi metri sotto terra, mentre visitavamo i resti della Tridentum romana, ho capito.
Ho capito cos'era la sensazione non ben definita che avevo provato in stazione, alla vista di mio cugino.
Era innanzitutto sorpresa, stupore, e poi un turbine di emozioni differenti, tutte frutto di un'unica istantanea consapevolezza: il Tempo passa.
Quasi una subitanea e fugace illuminazione, una rivelazione di un concetto che in realtà conosciamo benissimo, ma di cui ci rendiamo conto solo a tratti.
Come se la nostra mente rifiutasse in un certo senso l'inevitabile e impietoso scorrere del tempo, abbiamo barlumi di percezione temporale solo quando rivediamo persone care dopo mesi o anni, oppure alla vista di luoghi visitati in un passato lontano, o ascoltando musiche, sentendo odori, percependo sensazioni che come in una ricerca proustiana ci conducono nei meandri della nostra mente,
lì dove i ricordi stanno,come pietre miliari lungo il cammino della vita,a confermare che il Tempoè un'inesorabile, veloceretta.E se una visione agostiniana del tempo, di questa linea che partendo dalla creazione del Cosmo e passando per la nascita di Cristo punta verso la Salvezza, ci appare in un certo qual modo adeguata a spiegare il "fine" del
Tempus Fugit, nondimeno ci appare più "sopportabile" e meno traumatica per la nostra psiche quella visione greca del tempo, di quel tempo circolare, che torna sempre su sé stesso, e che nel vivere quotidiano, così come nei corsi e ricorsi storici, sembra avere continua conferma.
Eppure la percezione più forte, più sconcertante dello scorrere del tempo, non è legata ad una spiegazione di tipo filosofico, bensì alla semplice esperienza.
La sensazione maggiormente persistente circa l'inesorabile scorrere del tempo, per quanto mi riguarda, me l'ha fatta provare Francesco Veltre, in arte Ciccio.
Eravamo, in una lontana notte di agosto di sette anni fa, in quel di Londra. Dopo una giornata di lavoro massacrante, stanchi e meditabondi, ci eravamo messi a letto. Avevamo affittato una stanza nei pressi di Queen's Park, al mitico 143 di Bravington Road. Con lo sguardo al soffitto, ognuno nel proprio letto, non riuscivamo a prender sonno, nonostante la giornata piena appena passata. In casi come questo eravamo soliti chiacchierare fino a tarda ora praticamente di tutto; di cosa avremmo fatto dopo il liceo, di un mitico viaggio
on the road in America (che poi abbiamo fatto!), di come si poteva spendere un miliardo (all'epoca c'erano le lire) in auto, moto e viaggi,... e cose così.
Quella notte si parlò, invece, del Tempo.
Pensavamo a quante cose erano successe da quando, circa quattro anni prima, eravamo andati in Irlanda, per un corso estivo in un college vicino Dublino. Meditavamo sull'
ominia mutantur e sul valore del
carpe diem.
Ma l'apice della discussione si raggiunse quando Ciccio mi rivelò la sua drammatica scoperta: la vita passa nel tempo di un "
tu".
Il
tu è un verso onomatopeico, non il pronome personale della seconda persona singolare nella lingua italiana. Il
tu è come un sussurro, è come il
tic tac di un orologio, ma più breve, più lieve, più complicato da capire.
Il
tu è come un segnalibro nella tua storia personale; ogni volta che lo rievochi ti ricordi del primo
tu, che per me iniziò allora, ma per Ciccio risaliva a molto tempo prima. Al pronunciare questo suono magico la distanza tra il primo e il secondo, terzo o ennesimo
tu, in un lampo viene annullata nella tua mente, e ti ritrovi a capire come tra un istante e l'altro, non ci sia
niente. Tra una insonne notte londinese, ed una serata a New York, oppure un freddo meriggio trentino, passa il tempo di un
tu. La profonda consapevolezza consiste nel capire, e percepire, che non c'è ontologicamente niente tra un istante e l'altro della nostra esistenza; niente se non tempo passato.
Certo, poi con un po' di calma e altrettanto ottimismo, ci si rincuora al pensiero delle mille cose fatte tra un
tu e l'altro, ci si aggrappa ai ricordi, a quello che di materiale si è creato, magari anche a quanto si è maturati o innamorati tra una fase della propria vita e quella attuale.
E' normale; non riusciamo ad accettare la contrazione temporale creata dal
tu. La paura dell'ultimo istante, quello dell'ultimo
tu, quello che ci porterà a varcare l'ultima porta, per entrare nel "mondo del non ancora", ci induce ad interporre tappe ritenute significative tra una momento e l'altro di riflessione sul tempo.
La paura della sera ci fa mentire a noi stessi, circa la durata del giorno.
Bellissima e brutale a tal proposito è la poesia di Salvatore Quasimodo.
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
Bella perché pur nella sua impostazione ermetica è così densa di significato da imporre ore ed ore di meditazione. Ma brutale, oserei dire crudele, per la visione disillusa della vita umana, del processo di consapevolezza dell'individuo e del suo destino improrogabile.
Ci sarebbe poi molto da dire sulla relatività del tempo, sia in senso fisico che riguardo alla percezione delle singole persone, specialmente in base al loro stato d'animo. Perfino nel
Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupery (libro che io ritengo pessimo) c'è qualche riflessione interessante su tale concetto. Ma esula dalla mia analisi attuale.
Quello che oggi pensavo, e che mi andava di scrivere, è che nasciamo, cresciamo e moriamo quasi nello stesso istante.
Il presente è un punto della retta.
Un umanista del quattrocento mi pare scrisse dei versi che dovevano suonare pressappoco così:
Il Passato non è,
ma se lo finge la vana rimembranza;
il Futuro non è,
ma se lo pinge la credula speranza;
il Presente sol'è;
talché la vita è appunto:
una memoria,
una speranza,
un punto.
Partendo da semplici impressioni, mi sono trovato a digredire su cose che forse annoiano, e che nulla hanno a che vedere con il WWT.
Ma che importa.
Ho tempo da perdere.