Blog "di viaggio" di Luca Martino, dove Filosofia, Politica, Economia, Marketing, Web e SEO sono di strada.
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31 dicembre 2008
2008: l'anno della crisi - Fine di un'epoca
Parecchi amici, in questi lunghi mesi di difficoltà dei mercati borsistici, mi hanno chiesto di dare un'interpretazione dell'evento in atto, di spiegare come è stato possibile arrivare a simili crolli delle capitalizzazioni dei grandi colossi bancari mondiali, e come se ne poteva uscire. Il più delle volte ho risposto con e-mail vaghe, poiché avevo il fermo proposito di scrivere in dettaglio un articolo che mettesse nero su bianco il perché io questa crisi finanziaria me l'aspettavo da 3 anni (ben prima della crisi dei mutui sub-prime, dell'estate 2007), e perché è di una gravità enorme, ancora mal compresa.
Ora che il 2008 volge al termine, mi viene da sperare che il peggio sia passato e che tra 6-7 mesi potremo guardare con relativa prospettiva storica agli ultimi 2 anni di recessione, con un po' di gratitudine, poiché il "sistema" si sarà sgonfiato e si sarà ripulito di una miriade di anomalie congenite al capitalismo stesso.
In sintesi, quello di cui sono stato convinto fin dall'autunno del 2007 (ero da poco tornato dall'America, e avevo vissuto praticamente in diretta lo scoppio dalla bolla dei mutui sub-prime) è che gli eventi a cui assistevamo avevano una portate disastrosa. Questa crisi l'ho definita la prima vera crisi globale mondiale.
Su questo punto molti studiosi di Storia Economica non sono d'accordo; c'è perfino chi dice che la crisi del 1929 fu una crisi mondiale... ma non è vero. Questa è la prima vera crisi economica mondiale, frutto di una finanza impazzita e male regolamentata, di una globalizzazione a livelli planetari particolarmente capillare e di tantissime teste vuote incapaci di amministrare i fenomeni complessi (mi riferisco ai politici di tutti gli stati).
Ma in fin dei conti il grande colpevole è uno: IL CAPITALISMO.
Quando ero piccolo (intorno ai 14-15 anni), non so per quali letture o quale passione politica, ero uno statalista (posizione che non si riscontra in nessuno dei miei familiari). In pratica ero convinto che l'impresa privata non potesse concorre al "bene comune" perseguendo l'obiettivo del mero profitto; dicevo che non bastava "regolare gli egoismi degli individui" per far funzionare una società, ma ci voleva un indirizzo preciso di cooperazione tra i privati, orchestrato dalla mano saggia dello Stato in ogni fenomeno economico. Mio padre e un mio zio, in particolare, mi davano addosso, dicendo che non capivo niente, che il comunismo era fallito, e che lo stato avrebbe solo inguaiato di più le aziende di cui avesse acquisito il controllo. Quando mi dicevano "sei un illuso statalista-comunista", nelle loro intenzioni era un'offesa; per me era un complimento (sebbene sia un ossimoro).
Ed è un complimento che rispolvero ora con particolare orgoglio, ora che studio economia, e che posso poggiare le mie teorie su basi ben più solide che un'intuizione giovanile. Ma, soprattutto, ora che gli eventi mi danno ragione, ora che il principale paese liberista del mondo (o almeno che ha detto di esserlo per decenni, ma poi in realtà non lo è mai stato) vede la sua economia ridotta in ginocchio, e lo Stato decide di entrare nei principali gruppi bancari per evitarne il fallimento, elargisce fondi alle industrie in crisi, taglia il costo del denaro ogni mese, progetta piani di stampo keynesiano per far fronte alla disoccupazione galoppante, e che aumenta quindi a dismisura il debito che le future generazioni saranno costrette a pagare.
Anche l'Italia non è da meno (e l'esempio Alitalia ne è una prova), insieme a Gran Bretagna, Francia e, in maniera ridotta, anche Germania.
Tutti sembrano aver dimenticato che fino a ieri erano degli accaniti sostenitori del libero mercato, della deregolamentazione delle borse, della cancellazione delle politiche protezionistiche dei vari stati. Senza dimenticare che i politici, i quali oggi gridano allo scandalo della diffusione di strumenti finanziari complessi e ad alto rischio, fino all'altro ieri applaudivano all'invenzione del credito al consumo per sostenere la domanda di beni e servizi. Per sostenere il PIL di competenza del loro governo, chiedevano in pratica al cittadino medio di comprare prodotti che non poteva più permettersi già dalla seconda metà degli anni ottanta.
Quella che è nata come una crisi finanziaria è divenuta una crisi dell'economia reale, ed io, come milioni di altri lavoratori in tutto il mondo, rischio di perdere il posto di lavoro, nonostante appartenga a quell'esiguo gruppo di investitori che ha sempre creduto nell'investimento responsabile e che ha fatto dell'etica il faro del proprio agire.
Noi pagheremo le colpe di chi, innalzando bandiere fittizie di progresso e libertà, combatteva in realtà solo per i propri sporchi interessi.
Ma voglio lasciarvi con un pensiero positivo: il colpo che il capitalismo ha dato a se stesso è stato fortissimo; tale da farlo vacillare dalle fondamenta. Ed è in quest'ottica che ho ripreso in mano le teorie su una nuova economia, che avevo iniziato a scrivere dal 2001 in poi. Una economia nuova, che soppianti questo sistema bacato, il quale ha dimostrato abbondantemente di non essere in grado di garantire benessere diffuso e sostenibilità della crescita. Sto quindi scrivendo un romanzo a scopo divulgativo, raccontando come sia possibile creare un nuovo sistema economico, basato su principi marxisti, ma che adotti i mezzi del capitalismo. In breve, azionariato diffuso, distribuzione ponderata degli utili su base geografica e con metodologie di riparto che favoriscano il progressivo benessere dei paesi sottosviluppati e la cancellazione della povertà; magari è solo un sogno, ma vale la pena di essere sognato, se può gettare la basi per una riflessione di ampio respiro su quello che abbiamo creato in questi ultimi due secoli e che magari ci induca a fermarci;... o a fare "marcia indietro", come dicono i sostenitori della "decrescita".
Se questi propositi di cancellare il capitalismo fanno sorridere qualcuno, voglio ricordare che è solo la mancanza di prospettiva storica che non ci permette di credere possibile un nuovo sistema economico. Eppure il Capitalismo ha circa 200 anni. Prima nell'Europa occidentale c'era il Feudalesimo, che è durato molto di più, diciamo dal IX secolo con strascichi fino al XVIII. E prima di esso c'era la Società Curtense, e prima ancora c'era l'Economia della Villa Romana.
E' ovvio che se nel 1300 aveste fermato un contadino intento ad arare il campo e gli aveste detto: "Sai, tra qualche secolo il lavoro che stai facendo sarà interamente per te è la tua famiglia, non sarai costretto a dare metà del tuo raccolto al tuo feudatario, né lui potrà far valere il suo diritto di passare la prima notte di nozze con tua moglie, né potrà ammazzarti, o punirti senza un processo. Anzi, ti dirò di più: il feudatario non esisterà, e la terra che coltivi sarà tua."
Quel pover uomo, ammesso che avesse afferrato il senso del nostro vaticinio, ci avrebbe riso in faccia, ovviamente incredulo di tale assurdo futuro.
Ma quel futuro si è realizzato.
Io credo che la fine del 2008 segna se non la fine del capitalismo, senz'altro la fine della fiducia di tantissime persone nel fatto che questo sistema economico sia capace di produrre benessere diffuso, equità sociale e sostenibilità ambientale.
E questo è il primo passo per cambiare.
Buon anno nuovo a tutti. E buon cambiamento.